CULTURA

Robert Creeley, il respiro poetico di un'America scomparsa


3 April 2005
Corriere della Sera
033
Italian
(c) CORRIERE DELLA SERA

È morto in Texas uno dei maggiori esponenti della lirica

postmoderna. Amico dei Beat, idolatrato per i suoi esperimenti

linguistici

di FERNANDA PIVANO LE LETTURE La sua è sempre stata una delle voci liriche più amate e ascoltate

Ah, Robert, caro Robert Creeley, grandissimo poeta di grandissime poesie, grandissimo divulgatore e trasmettitore di idee, di cultura, di storia, grandissimo interprete di poeti cosiddetti difficili, grandissimo amico di chiunque avesse bisogno di un consiglio per respingere il suicidio. Ha passato una vita in Giappone a imparare la filosofia buddhista e l'insegnamento zen: una quarantina d'anni a partire dal '53, con brevi intervalli per ritornare nella sua America. Per andare a fare i corsi al Black Mountain College del North Carolina e per dirigere la rivista dell'Università. E poi per vivere a Taos e a San Francisco e in New Mexico nel '56 per insegnare ad Albuquerque e poi in una finca nel Guatemala. Questa girandola occidentale basata sulla sua formazione ormai orientale l'ha fatta quasi tutta soffrendo di un enfisema, per il quale ha sempre detto di non avere tempo, nonostante negli ultimi anni vivesse attaccato a una bombola di ossigeno, aiutato nella sua ostinazione da una biopsia ai polmoni risultata negativa. Robert Creeley non era mai riuscito a staccarsi dagli strani, stupendi costumi del Giappone. Né dalla sua America, di cui amava profondamente cultura e civiltà. I suoi interessi non si fermarono mai solo alla poesia. Gentile e dotato di una grazia ospitale, era soprattutto amico dei più importanti artisti moderni e lavorava spesso con loro a libri e progetti di mostre, era pure socio di musicisti jazz: un vero cultore dell'arte. La popolarità gli veniva anche dalle migliaia di letture che faceva: l'ultimo reading, in Virginia, l'ha organizzato due settimane prima di morire. E quando qualcuno si stupiva del suo intenso programma di presenze pubbliche rispondeva con un verso di uno dei suoi più cari amici poeti, il medico William Carlos Williams: «Mi chiamano e io vado». Sono molti a pensare che la sua morte ha impoverito il mondo dell'arte e delle lettere. Almeno Oltreoceano, aveva una gran reputazione di poeta postmoderno. Moltissimi giornali americani hanno accolto così la sua scomparsa: «Il poeta Robert Creeley, uno dei maggiori esponenti della lirica postmoderna americana, è morto in Texas a 78 anni. Insieme ai più noti esponenti della Beat Generation è considerato uno degli autori che ha contribuito in modo definitivo a rinnovare la poesia americana nel mondo durante il Secondo Dopoguerra». È stato un eroe degli Anni Cinquanta, uno dei momenti più gloriosi della cultura Usa, idolatrato per i suoi esperimenti linguistici e per le libere improvvisazioni nel corso delle sue letture. Quella di Robert è stata una delle voci poetiche più ascoltate e amate: lui, così appassionato ai tentativi di migliorare il linguaggio; lui, tanto lodato da Allen Ginsberg per l'intelligenza dei suoi esperimenti. In America ha pubblicato una sessantina di libri e qualcuno è arrivato anche qui in Europa, dove però era noto soprattutto come direttore delle riviste di poesia americana, specialmente di quella Black Mountain Review in cui sviluppò la sue affinità con Charles Olson: insieme concepirono l'opera poetica come centro di possibilità nuove del «respiro», un respiro che divenne componente essenziale di versi trasformati in atto dinamico attraverso la lettura. Il mio ricordo me lo riporta agli occhi e alle orecchie, soprattutto al cuore, ripensando a quando l'ho incontrato la prima volta nell'Istituto di San Francisco dove si tenevano i reading suoi e degli altri poeti Beat famosi. Naturalmente stava fumando un joint, naturalmente era la prima volta che ne vedevo uno, naturalmente era la prima volta che mi trovavo, da un piccolo centro provinciale del nord Italia, nella sala famosa della capitale letteraria d'America. Tenero, gentilissimo, senza bisogno di parole aveva capito tutto e mi aveva fatto, con mia sbalordita riconoscenza, la prima lezione su quello che era successo e stava succedendo alla poesia americana, postmoderna o no, ma nuova, libera, tesa al futuro invece che al passato: mi parlava con una sincerità, un riserbo, un'umiltà che non ho trovato in nessuno dei miei amici più cari. Chiunque lo abbia avvicinato non può che piangere la sua morte e invocare il futuro perché riesca a essere amato e capito negli enormi spazi profumati dell'eternità.